Essere virgola Umano
di Francesca Violi+
La virgola è lì. Con una pausa breve separa l’Essere dall’Umano, così come noi ci separiamo apparentemente dal tutto attraverso l’autocoscienza, pur rimanendone interrelati. La pausa ci riporta al ritmo. La vita è movimento. La vita umana è legata a ritmi fisiologici e naturali. In musica la pausa, il silenzio, la cui corretta esecuzione è cruciale, contribuisce all’interpretazione e alla comprensione del brano. La pausa non è semplicemente un’assenza di suono, ma è un elemento espressivo che contribuisce all’atmosfera del brano. “Essere virgola Umano” potrebbe essere allora, se pensiamo alla musica e al ritmo, anche un verso poetico in cui intravedere sonoramente la nostra natura.
ESSERE, CORPO e RELAZIONE
In quanto esseri umani, non possiamo prescindere dal corpo, dal nostro corpo, dal corpo vivo, Korper und Lieb, termini tanto cari alla fenomenologia e alla psicosomatica.
Prendiamo, dunque, la mano come simbolo del nostro avere un corpo ed essere un corpo.
Con la mano “afferriamo” il mondo, gesto tanto caro alle neuroscienze nella costruzione della mappa neurale del bambino in relazione all’ambiente.
Con la mano tocchiamo. Il senso del tatto, esteso a tutta la pelle, così fondamentale, come ci ricorda Harlow nei suoi esperimenti, da essere preferito al nutrimento. Il senso del tatto si concentra via via nella mano del bambino, nel conoscere il mondo, cercando gradualmente di dare una forma a quelle atmosfere senza confini in cui è immerso fin dalla nascita.
Il bambino guarda la mano, la usa e nell’esperienza quotidiana, arriva ad associarla alla sua volontà e attraverso di essa continua ad esplorare di nuovo il mondo e se stesso e il suo corpo, in modo nuovo, ossia coscientemente, per tutta la vita. Poi di nuovo libera la mano con la posizione eretta e in quel momento, dopo aver lungamente allenato il corpo e l’apparato fonatorio, il linguaggio permette di dire “Io” a se stesso e ri-conoscersi come Essere, Umano. Inizia così ad essere e avere un corpo. “Senza la riflessione del linguaggio che ci fa dire io, non sarebbe possibile riconoscersi. ”, ci ricordano Gallese e Morelli (2024) e aggiungono che essere umani significa essere “cablati per connetterci con l’altro.[1]”
Già l’antropologo Francesco Remotti (2021) aveva mutuato il termine individuo in coindividuo, riconoscendo il primato relazionale del nostro essere umani e l’interrelazione complessa che come esseri viventi ci definisce in relazione all’altro e al tutto.
Ci parlano di “paradigma corporeo, basato sulla relazione ”, e di corpo come “sorgente prima delle potenzialità relazionali che definiscono il nostro mondo e il contesto sociale in cui ci sviluppiamo ”. Proprio l’imitazione neonatale sembra essere il primo strumento che abbiamo, innato, per sintonizzarci con l’altro e studiando il feto si è scoperto che proprio gli schemi motori il cui controllo è più sofisticato sono quelli diretti verso l’altro, già alla sedicesima settimana di gestazione.
La relazione è ovunque: ci appare come una dimensione frattale dell’essere umani, cioè una dimensione che si ripete a diversi livelli di scala, mantenendo caratteristiche simili.
La relazione se parliamo di essere umano non può prescindere dal corpo vivo, chiamato dai fenomenologi appunto Lieb. In tedesco infatti le parole per designare il corpo sono due: Korper, per designare il corpo materiale, oggetto di studio delle scienze della vita e il Lieb che si riferisce all’esperienza vitale che grazie al corpo facciamo del mondo.
Il concetto stesso di empatia trova le radici proprio nel Lieb, in quanto l’esperienza è sempre l’esperienza di qualcuno, di una soggettività frutto di corpo, relazione e movimento che percepisce secondo la sua biografia. La nostra percezione dell’altro non è mai dunque diretta, ci possiamo solo approssimare. La nostra esperienza è la nostra. L’alterità è costruita su una relazione di somiglianza, di compartecipazione. Il tutto in un movimento continuo.
ESSERE, MOVIMENTO e CONOSCENZA
La vita è movimento, ritmo e relazione. Noi esseri umani siamo movimento, ritmo, relazione, corpo, psiche e linguaggio. “Tutto nasce dal movimento. Il movimento come primus movens.[2]”
Il linguaggio che secondo Steiner è movimento trasformato è la nostra caratteristica specie specifica. Gli studi neuroscientifici confermano che il linguaggio infatti non è un punto di partenza, ma un’emergenza evolutiva e che il linguaggio mantiene “intatti i legami con le radici corporee da cui scaturisce e di cui costituisce l’espressione di un creativo riuso[3]”
In “Storie che curano” J.Hillman (1983) parlava di quanto sia importante curare non tanto il paziente quanto la storia che questi racconta su se stesso. E’ vero infatti che una persona inizia un percorso terapeutico portando con sé un problema o un sintomo, ma è altrettanto vero che ciò che il terapeuta ascolta non è il dolore psichico ma la sua narrazione. Questa narrazione, il suo stile, il modo che il paziente ha di raccontarsi, sono importanti quanto i sintomi.
La narrazione dà forma al nostro essere in movimento nel mondo, dà forma alla nostra coscienza. La narrazione è movimento trasformato che tiene insieme la multidimensionalità della vita. La narrazione è fortemente relazionata all’immaginazione, intesa nella sua forma non fantastica, ma intuitiva dei rapporti simbolici e archetipici della vita. La narrazione è uno dei modi per crearsi, per divenire se stessi.
L’essere umano è infatti, secondo Aristotele, zoon logon echon, letteralmente l’animale che possiede la parola. Nominare, parlare, descrivere, dialogare, raccontare, narrare, costruire pensieri, creare immagini e tradurre immaginari: queste alcune nostre caratteristiche specie specifiche.
La psicoterapia è il luogo in cui l’umano è considerato nella sua complessità e in cui nel rapporto intersoggettivo tra paziente e terapeuta la narrazione mantiene la sua forza profondamente trasformativa. “Una terapia riuscita è quindi una collaborazione tra narrazioni, una re-visione della storia in una trama più intelligente, più immaginativa.” (Hillman, 1983)
Conoscere se stessi dunque è un processo soggettivo, relativo, personale, ma nello stesso tempo collettivo, frutto delle nostre esperienze relazionale e corporee.
Il mezzo con cui l’essere umano procede nell’atto del conoscere è frutto del porsi e porre le domande. Domande che non abbiano immediata risposta, ma aprano all’osservazione e all’apprendere dall’esperienza, al sentire, al contemplare, al narrare, a cogliere le immagini che giungono dal profondo.
Nel porci la domanda ci apriamo all’esplorazione dell’ignoto e con esso cerchiamo un dialogo, un confronto. Seguendo Edgard Morin, proprio il lavoro/dialogo con l’irrazionalizzabile è uno delle condizioni del pensiero complesso: “Il pensiero complesso deve soddisfare numerosissime condizioni per essere tale: deve collegare l’oggetto al soggetto e al suo ambiente; deve considerare l’oggetto non come oggetto ma come sistema/organizzazione che pone i problemi complessi dell’organizzazione; deve rispettare la multidimensionalità degli esseri e delle cose; deve lavorare/dialogare con l’incertezza, con l’irrazionalizzabile; non deve più disintegrare il mondo dei fenomeni ma tentare di renderne conto mutilandolo il meno possibile[4]”.
Conoscere è dare senso e significato. Noi esseri umani in quanto animali simbolici non possiamo non dare significato alla realtà. Essere umani non può prescindere, dato che siamo dotati di autocoscienza, da un conoscere che diventi comprendere, da prehendere cum, ‘tenere insieme’, dall’abbracciare[5] con tutti i sensi del corpo e dell’immaginario, ciò che siamo e ciò che c’è, noi interrelati al mondo, noi in relazione con l’Altro.
ESSERE, U_MANO
Mentre sto scrivendo l’articolo mi appare alla mente un trattino basso che separa la parola umano: U_MANO. la osservo e rifletto. Se fossimo stati nel precedente periodo storico in cui corpo e mente sono passate dall’essere considerate due entità separate a trovare un dialogo e una continuità, avrei probabilmente utilizzato un ‘trattino breve’ (-), un segno che separa e unisce, nel tentativo di rappresentare quel dialogo che oggi ha la risposta in una visione non più riduzionistica e meccanicistica, ma sistemico-complessa-intergrata in cui l’Umano recupera la sua totalità e la sua interdipendenza dalla Natura.
Oggi, nell’Era Complessa, che esige una visione multi-inter-trans-disciplinare[6], si parla infatti di psicosoma, di continuum mente corpo, di continua interdipendenza uomo ambiente e soggetto contesto. Proprio in questo momento storico la mia mente ha forse scelto, dunque, un ‘trattino basso’ o ‘underscore’ (_), che viene dal mondo informatico e linguistico, per sottolineare ed aprire una riflessione anche volto ad interrogarci sull’informatizzazione e il digitale, che irrompono ponendo nuove questioni alla luce di chi siamo, come funzioniamo e del rapporto reale-virtuale.
L’informatizzazione, il digitale e l’AI sono infatti espressioni stesse della complessità che viviamo.
Byung-Chul Han (2024) interrogandosi su informazione e narrazione denuncia il pericolo di un appiattimento e di una distorsione della realtà derivante dall’informatizzazione e dal digitale. Portando l’attenzione sulla necessità di recuperare “una narrazione capace di trasformare e di aprire un mondo (…) che emerge e prende forma grazie a un processo complesso (…) espressione di una tonalità emotiva del tempo.[7]”
Narrare è un gioco di luci e ombre, di visibile e invisibile, vicinanza e lontananza. L’odierno disincanto è il risultato dell’informatizzazione del mondo e il suo modello di riferimento è la trasparenza. Essa disincanta il mondo riducendolo a dati e informazioni.[8] Ogni narrazione infatti presuppone qualcosa di segreto e di magico[9] – e denuncia – stiamo perdendo la capacità di narrare[10]. Racconto e informazione sono forze contrapposte[11] – dichiara Byung-Chul Han (2024) – all’informazione manca la stabilità dell’essere. Essere e informazione si escludono a vicenda. L’informazione non è portatrice di senso, mentre nel racconto il senso transita.[12]
Byung-Chul Han (2024) continua, affermando che “paradossalmente, sembra proprio che la crescente connettività ci isoli. Essere connessi in rete non significa essere legati gli uni agli altri” . La digitalizzazione dunque intensifica la povertà di contatto? Che significato ha questo fenomeno per noi esseri umani cablati per connetterci agli altri?
Parole forti che fanno emergere domande e riflessioni sul nostro essere umani e il rapporto reale-virtuale.
Come approcciare consapevolmente al digitale ricordandoci la nostra natura corporea ed emozionale e per il quale la relazione di dipendenza è fondante per la nostra autoformazione? Come riconoscere la nostra natura relazionale e dipendente e tenerla in considerazione nell’uso di tali nuovi strumenti?
Già Calvino (2022) si interrogava: “Quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la civiltà dell’immagine? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?”.
Quali mappe neurali si creeranno tra scrolling e tapping sulla tastiera? Quale il dialogo tra avatar e vita reale? Tante altre sarebbero le domande, importanti ai fini di favorire la nascita di un pensiero critico che non chiuda nessun possibilità, ma possa trovare ulteriori domande e bozze di risposte complesse nelle singole esperienze.
Solo alcuni dei molti quesiti che troveranno nel Festival della Complessità di quest’anno validi esperti che con il loro contributo potranno, in tal senso, fornirci spunti, aperture e consapevolezze.
Per quello che riguarda l’ambito psicoterapeutico, concordo con Byung-Chul Han (2024) quando egli dice che “ogni malattia si mostra anche come un blocco interiore che può essere superato attraverso il ritmo del narrare. La mano che racconta distende le tensioni, scioglie le paralisi e gli irrigidimenti. Essa riporta le cose in equilibrio, cioè le fa nuovamente scorrere”. La malattia e il disordini sono espressione di una narrazione bloccata. Nel momento in cui il paziente riprende, in terapia, a narrarsi liberamente allora è “guarito”. Dove per guarigione si intende un recupero del proprio senso nel mondo. Nel riportare alla parola ciò che non si è in grado di raccontare. La fantasia narrativa è curativa, se per fantasia intendiamo l’alta fantasia di Dante di ispirazione calviniana e di una narrazione che dialoghi con l’immaginario archetipico. Ascolto e narrazione si co-appartengono e questo bene lo sanno gli psicoterapeuti e gli psicoanalisti.
Che sia forse necessario recuperare ascolto profondo, dialogo interiore e narrazione per essere umani?
La parola è un ponte tra il dentro e il fuori. Quando la parola prende forma in noi – scritta o parlata – quel movimento trasformato crea e dona una forma a un immaginario, dà forma alla mente, a nuove forme di vita e di pensiero che sono relazionali, metaforiche, poetiche, immagini vive. Temi che approfondirò, partendo dalle basi di questo articolo, nella mia relazione a Tarquinia.
Francesca Violi, psicologa psicoterapeuta Ecobiopsicologia, ad indirizzo psicodinamico e psicosomatico. Terapeuta EMDR. Maestra d’Arte. Esperta Mindfulness. Conduttrice di laboratori di scrittura autobiografica. Si occupa di Salute e Complessità dal 2012. È membra dello Staff organizzativo del Festival della Complessità. Formatrice, divulgatrice e autrice di libri e articoli.
Bibliografia
Byung-Chul Han (2024) La crisi della narrazione. Torino: Einaudi.
Byung-Chul Han (2020) La salvezza del bello. Nottetempo
Calvino I. (2022) Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Milano: Mondadori.
Fagan P. (2025), Benvenuti nell’Era Complessa. Rimini: Diarkos
Frigoli, D., (2016). Il linguaggio dell’anima. Fondamenti di Ecobiopsicologia. Milano: MAGI.
Frigoli, D., (2017). L’Alchimia dell’anima. Milano: MAGI.
Frigoli, D., (2019). I sogni dell’anima e miti del corpo. Milano: MAGI.
Frigoli D., (2023). Il telaio incantato. Milano: Mimesis
Gallese V., Morelli U. (2024) Cosa significa essere umani? Milano: Raffaello Cortina
Hillman J. (2021) Le storie che curano. Milano: Raffaello Cortina
Morin E., (1988) Scienza con coscienza. Milano: F. Angeli
Morin E., (1983) Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione. Milano: Feltrinelli
Remotti F. (2021), Coindividuo o individuo? Milano: Raffaello Cortina