Tessuti. Essere forma nel tempo.

in Materia Prima, La base poetica della mente. Dicembre 2023 – XIII

ABSTRACT

Nel presente articolo, si intende sottolineare l’importanza delle primissime fasi di vita dal concepimento alla nascita come momento da approfondire durante la raccolta anamnestica ai fini di ampliare le informazioni della storia dell’individuo fino ai suoi albori. Il concepimento – e potremmo aggiungere, anche prima del concepimento – e tutto ciò che accade durante la gravidanza sono momenti fondamentali in cui diverse forze confluiscono nel dare forma a ciò che sarà il nuovo nato. Ogni individuo è durante questa fase “tessuto” da queste forze. Tessuto nel corpo, nella differenziazione dei vari foglietti e della successiva organogenesi; tessuto nell’anima, nel simbolico telaio in cui si dipana la storia di un essere umano nel suo divenire interrelato con gli altri, il mondo, la natura. Verrà introdotto l’uso dell’autobiografia nella relazione terapeutica, con esemplificazioni anche cliniche, in cui verrà raccontato come il paziente possa ritrovare attraverso la scrittura della propria storia, il suo filo rosso e scorgere il divenire della propria esistenza.

Tessuti. Essere forma nel tempo

«Buio. Lampo di luce. Silenzio tonante.
Uno. Due. Quattro. Otto. Sedici. Centoventotto
Una sfera

Linea primitiva. Tre foglietti
Migrazioni Aggregazioni Ripiegamenti Invaginazioni
Movimenti

Tre forze danzano insieme dando forma alla vita.
Isolotti di Wolff. Tubo neurale
Notocorda. Archenteron
I Sensi

Nove mesi. Dieci lune. Quaranta settimane
L’ontogenesi ricapitola la filogenesi
Embrione
Feto

Tre forze danzano insieme
dando corpo a un’Anima
dando vita a un Corpo
dando a un’anima una Storia.

Eredità. Ambiente. Sé

Immagina di ripercorrere la tua storia
dal Concepimento alla Nascita
qui inizia l’Esistenza
che Ri-Conoscerai».

 

Mi sono permessa di iniziare l’articolo con immagini e parole che, nel ritmo, mimino quel processo di innesco della vita che per ognuno di noi ha sede nel concepimento, o forse anche prima di esso. Ho scelto immagini e parole in poesia[1] perché la vita è costituita in forma “autopoietica”[2], nel ciclo continuo di ri-nascite. Come ci dice anche Diego Frigoli «L’universo è un mistero costruito in forma “poetica”, un continuo infinito che si dipana in infinite molteplicità di forme che ci appaiono come finite e temporali».

L’esperienza di essere madre mi ha dato la possibilità di cogliere il senso profondo delle parole «nascere nel mezzo» di Bion e sentire come nella formazione di quel corpo, che tenevo in grembo, diverse forze operassero, non solo personali ma anche collettive, trasformando in quell’esperienza anche me stessa. Iniziai così a porgere maggiore attenzione durante i colloqui di terapia proprio al periodo pre-natale, alla gestazione, al concepimento. Ciò mi portò ad aumentare le conoscenze approfondendo maggiormente lo studio dell’embriologia e dell’Antroposofia.

Si nasce in un contesto, una cultura, una lingua, una famiglia, un momento storico e portiamo nel nostro corpo tutti questi elementi, che contribuiscono alla costruzione dei nostri organi interni. Nasciamo ripercorrendo la filogenesi dell’Universo, come ci dice Haeckel, e in ogni passaggio è possibile intravedere in questa esperienza umana, la stretta interconnessione tra il macrocosmo e il microcosmo.

FIG. 1. Kupka František, L’inizio della vita, Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’Art Moderne,1900-1903

Aprendo lo sguardo alla dimensione umana intrauterina è possibile ritrovare, in questa delicata e affascinante narrazione della nostra storia, le tre forze che danzano a dare forma a ciò che sarà il nuovo individuo. Non ci soffermeremo qui sulla formazione degli organi e la relazione dell’ontogenesi che ricapitola la filogenesi nelle varie fasi della gravidanza, ma sul senso, come dicevo, del nascere nel mezzo e sul senso della continuità della vita che muta al nostro mutare. «Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma», direbbe Antoine-Laurent Lavoisier. «Tutto scorre» direbbe invece Eraclito, con l’auspicio proprio di portarvi a sentire questo scorrere continuo della vita che come un fiume ci accompagna di forma in forma, di generazione in generazione, di vita in vita.

Tutto è movimento. Tutto è uno. Tutto è relazione.

In questo tutto interrelato, l’uomo è l’unica forma intellettiva in grado di comprendere le leggi dell’universo e ha un ruolo non accidentale proprio in tale atto di comprensione, direbbe Frank Tripler (Frigoli, 2022). L’Universo è partecipativo e ogni forma di esistenza partecipa alla creazione della realtà stessa, ognuna con il proprio livello di coscienza. L’uomo partecipa alla creazione della realtà nel dialogo continuo con la natura e l’universo. La narrazione diventa allora la possibilità, secondo le nostre caratteristiche di umani dotati di linguaggio, memoria, pensiero e intelletto di poter cogliere la spinta del movimento vitale, l’elan vital di Bergson, il senso della vita.

«Parola e scrittura sono movimento trasformato» dice Steiner. La parola emerge come movimento trasformato in concomitanza alla conquista della verticalità e alla liberazione della mano, che permette un ampliamento dell’esplorazione del mondo, nel gesto tanto caro alle neuroscienze dell’afferrare. Da quel momento il bambino, dopo il lungo esercizio fatto di suoni e lallazioni, propone le prime parole. La nascita della parola si accompagna alla graduale stabilità motoria del bambino, che trova un primo consolidamento importante all’età di due anni. Con i tre anni, raggiunta anche la maturità del sistema nervoso, compare il Sé narrativo (Stern, 1987) e la composizione delle prime storie.

Secondo l’Antroposofia, se il primo settennio della crescita del bambino è occupato dal tatto, equilibrio, e movimento, anche nella parola; è col secondo settennio dominato dalla sensorialità che compare la scrittura. Parola e scrittura vengono poi consolidate col terzo settennio in cui si forma l’Io e il pensiero.

La parola è la base della psicoterapia. Quando pensiamo alla parola non ci riferiamo solo al contenuto ma soprattutto al timbro, tono, ritmo, alla frequenza della voce, ai silenzi. La parola in psicoterapia intesse, apre, ricuce, unisce, dà forma, descrive, disegna paesaggi, panorami. La parola è nel qui e ora, nel momento della relazione, esiste in relazione all’altro che mi ascolta.

La scrittura, rigorosamente a mano, attiva quel processo che Duccio Demetrio (1996) chiama bilocazione cognitiva in cui noi siamo allo stesso tempo autori e spettatori di noi stessi, dell’altro e del mondo. La scrittura ferma, ci permette di dare forma alla mente, nero su bianco, ci dà la possibilità di rileggere a voce alta e sentire le parole, così come le abbiamo scritte, di cogliere le sfumature con cui ci definiamo.

La scrittura facilita l’osservazione di sé, la scoperta di ciò che c’è oltre il racconto che conosco della mia vita, oltre l’esigenza subconscia che necessita di confermare le credenze dell’Io, oltre la visione dell’Io. Permette l’emergere di altro in me stesso, permette la visione di altro, oltre me stesso.

Ecco che allora, la scrittura diretta del paziente può diventare fonte di scoperta di sé. Fu così che cominciai a richiedere alle persone che vedevo in terapia, uno scritto di qualche pagina fatta a mano che riportasse la propria biografia, dal concepimento ad oggi.

Il tema della biografia, dal greco bio vita e graphos scrittura, riguarda ognuno di noi. Non si tratta solo di un interesse per la propria vita, per il proprio destino, ma anche di un desiderio di comprendere le forme sorprendenti e diverse attraverso le quali si dispiega la vita degli altri, dell’Universo. La conoscenza di sé e la conoscenza del mondo sono, come dicevamo, interconnesse in maniera intrinseca e imprescindibile. La nostra bio-grafia contiene in sè, psicosomaticamente parlando, la biografia delle piante, degli animali, dei minerali, la biografia della Terra e dell’Universo, racconta e svela quel profondo e inscindibile legame tra microcosmo e macrocosmo, disegnata dalla continuità dei ritmi e dei rapporti analogici. Ogni biografia è un fatto personale e collettivo, un fatto sociale. In ogni biografia personale possiamo vedere l’intreccio, l’entanglement della vita e vedere come il nostro divenire è direttamente intrecciato e interdipendente al divenire degli Altri, del Mondo, della Natura. Ecco che la biografia diventa la narrazione per eccellenza in cui ognuno di noi, partendo da se stesso può vedere tutte queste interconnessioni e come queste abbiano contribuito a renderlo ciò che è nel tempo.

«Se vuoi conoscere te stesso,
guarda in ogni angolo del mondo;
se vuoi conoscere il mondo,
osserva nel profondo di te stesso.
Se vuoi conoscere te stesso,
allora cercati nell’universo;
se vuoi conoscere il mondo,
allora spingiti nel profondo di te stesso.
Tutte le tue profondità,
come in un ricordo del mondo,
ti sveleranno i misteri del cosmo».

Steiner

Cito di nuovo Steiner per collegarmi al tema del “ricordare” e affermare che «Siamo qui non per apprendere ma per ri-cor-dare», dal lat. recordari, der. di cor cordis cuore, dagli antichi ritenuto sede della memoria. Siamo qui per “dare di nuovo cuore” a ciò che c’è, ricordare nel senso Platonico di poter accedere a quelle memorie dimenticate fondamento della vita e da sempre substrato della nostra anima. L’esplorazione di sé attraverso l’autobiografia e la ricostruzione di essa, a partire dai processi fisiologici e psicosomatici, dal concepimento permette proprio di aprire il cuore in tal senso, regalandoci la possibilità di rivedere noi stessi sotto una nuova luce.

Oggi le neuroscienze parlano di connettoma come biografia delle nostre relazioni ed esperienze. «Noi siamo il nostro connettoma, ossia la mappa comprensiva delle connessioni neurali nel cervello, costruita su base relazionale ed esperienziale e i connettomi si modificano nel corso della vita a seconda delle esperienze e degli accadimenti che per ognuno di noi sono diversi» (Seung, 2012). Partendo da queste parole di Seung potremmo affermare che, se da un punto di vista genetico il genoma definisce la nostra essenza in potenza in quanto normalmente non modificabile, il connettoma estrinseca il pensiero umano nel suo evolversi, in quanto inserito in un contesto che alimenta la persona, definendola attraverso un omeostasi dinamica all’interno di un quadro sistemico. Gli studiosi del connettoma ne descrivono ulteriormente il senso: «[…] ogni fiume ha un letto, e senza questo solco nella terra l’acqua non saprebbe in quale direzione scorrere. Ecco… dal momento che il connettoma definisce le vie di scorrimento dell’attività neurale, possiamo considerarlo il letto del fiume della coscienza. È una metafora molto potente. Nel lungo periodo, come l’acqua del fiume plasma lentamente il letto, così l’attività neurale cambia il connettoma» (Seung, 2012). La conoscenza del connettoma ha a che fare inoltre con la nostra unicità. La nostra unicità come diversa partecipazione all’universo stesso. Ogni esperienza e relazione contribuisce a modificare il corso del fiume e il suo letto. Per questo l’esperienza di un percorso psicoterapeutico e autobiografico può essere profondamente significativo nella vita di una persona.

Ai primi colloqui anamnestici ecobiopsicologici, affianco dunque un approfondimento della genealogia e la ricomposizione dell’albero genealogico e chiedo di scrivere la propria autobiografia. L’anamnesi[3] (Breno, 2012) apre la strada alla stesura della biografia, richiedendo al paziente di osservarsi, recuperando nuove informazioni transgenerazionali e di gestazione, prima della stesura a mano libera. Se la raccolta anamnestica permette alla parola di essere il primo veicolo relazionale del racconto di sè, la stesura personale del paziente che sceglie le parole per raccontarsi in forma scritta, consente una partecipazione diversa al processo terapeutico ad un ulteriore livello di coinvolgimento. La narrazione della propria storia è tessuto, come prodotto finale, in cui si intrecciano trama e ordito, è tessuto come participio passato di tessere, di una forza vitale che dà forma alla materia.

In un mondo che è in continuo movimento e divenire partecipato, la narrazione è l’unica risposta al dinamismo che permette nello stesso tempo di essere in movimento e fermi. Scrivere permette un respiro, una ritmicità all’auto-osservazione di sé che vede dopo un’espansione una contrazione, dopo un’espressione una riflessione, dopo un’inspirazione un’espirazione.

Alla proposta di scrivere, c’è chi l’accoglie con piacere, come se non avesse aspettato altro che qualcuno glielo chiedesse; c’è chi si sente all’inizio inibito dal giudizio, c’è chi arriva con un’autobiografia temporale, chi ad elenco, chi con un romanzo, chi con un saggio, chi con una lettera, chi con una sola parte della propria storia, chi con poesie. Altri ancora portano immagini, foto, disegni, pezzi musicali che diventano la base florida da cui arrivare alla parola scritta e al racconto di sé. Inizia così, a volte da piccoli elementi, a volte con testi compiuti, il designarsi di quella trama da cui si intravede l’ordito che dà forma alla vita. Mentre il paziente legge la sua autobiografia ad alta voce nel campo relazionale accadono diversi fenomeni che accompagnano il prendere forma della mente del paziente di fronte al suo divenire nella narrazione di ciò che ha scritto.

Ricordo quella volta che con Monica riattraversammo il momento della sua nascita prematura, era nata all’ottavo mese. Aveva un rapporto con la madre difficoltoso, non si sentiva vista e ascoltata, continuava a pensare di avere qualcosa di sbagliato. Le nascite premature necessitano di particolare attenzione, in quanto purtroppo, troppo spesso accade, che ci si dimentichi che oltre a uno sviluppo fisico di pari passo esista uno sviluppo psichico e animico corrispondente. Gli organi che si formano dal concepimento terminano la loro formazione anche negli anni successivi la nascita, specie nei primi tre anni. La nascita prematura necessita di una cura ulteriore dal punto di vista emotivo-relazionale, che tenga conto di questo “essere nata prima del termine”, che tenga a memoria di questo strappo prematuro. Monica nacque prematura ma sana, con gli organi fisici in ottimo stato e non necessitò di alcun intervento ospedaliero, ciò che necessitava era di un ambiente che lentamente la accompagnasse a crescere. Monica è una donna molto dinamica, veloce e il suo sentirsi non all’altezza sembrava distonico al mio sguardo, mentre mi diceva: «Io non faccio mai la cosa giusta!» Mi incuriosì il fatto che nella sua autobiografia avesse focalizzato tutta la sua storia al settimo mese di gravidanza. Monica scriveva che la sua leggera ipoacusia aveva avuto origine da lì, in quel mese aveva letto che si formava l’orecchio.

Dalla narrazione sembrava una gravidanza fisiologica e dal punto di vista fisico lo era. La forza con cui il settimo mese prendeva posto all’interno del testo mi portò a ripercorrere la storia della sua gestazione con lei, ampliando l’inquadratura alla storia famigliare, agli eventi che potevano essere successi in quel momento. Emerse che al sesto mese di gravidanza alla nonna materna fu diagnosticato un tumore all’utero e che proprio nel settimo mese la nonna dovette affrontare l’operazione di asportazione dell’intero organo e le cure successive. Fu in questa ricostruzione che per la prima volta Monica vide e sentì la fragilità della madre di fronte a quell’evento che la impegnava su un duplice lato, come nuova madre impegnata a portare a termine la sua gestazione e come figlia che vedeva la madre crollarle dinanzi, proprio nel momento in cui lei stessa lo stava diventando. Monica, recuperando quell’informazione, aveva ricontattato un nuovo senso della sua storia e di conseguenza del suo sintomo.

Alcuni passaggi a volte sono uno shock, a volte un insight per il paziente, e si avverte come il rumore di un crack, una crosta di asfalto che si apre come uno strappo nel manto stradale… in quei momenti nasce un silenzio che è profonda accoglienza di ciò che è quel suono, quella sensazione nella carne, un silenzio in cui gli occhi del terapeuta e del paziente si incrociano e da quel silenzio, lungo quanto necessario, sembra che entrambi abbiamo potuto scorgere e intravedere, in quella crepa, un verde fresco germoglio che timidamente si affaccia. Nel leggere l’intera biografia si intravedono i ritmi della vita, le espansioni alternate a contrazioni come il giorno e la notte, i diversi movimenti umorali come nelle fasi lunari. La lettura dell’autobiografia permette l’incontro con l’altro direttamente attraverso il suo linguaggio, le sue metafore e immagini. Ci accompagna con sguardo aperto alla bellezza dell’essere nel mondo. Altre volte le immagini arrivano invece come elemento creativo e generativo dell’incontro terapeutico.

Alice aveva scritto la sua biografia cronologica a punti, raccolta in precisi momenti e puntualità di eventi. Ricorsivo era il tema della sorella, più piccola di lei di tre anni, e con la quale era accaduto un importante evento sincronico. Alice e la sorella Anna, rimasero incinta, senza saperlo, più o meno nello stesso periodo e accadde che comunicarono la stessa sera alla famiglia di origine la nuova notizia. Fu Anna la prima a dirlo con grande entusiasmo, Alice che avrebbe forse voluto aspettare a comunicarlo, alla fine seguì la sorella e, con calma e gioia, condivise anche la sua bella novità. Diverso fu l’esito della gravidanza e Alice da lì a poco ebbe un aborto spontaneo. Il difficile evento dell’aborto aprì per Alice un varco nella conoscenza famigliare, nella quale scoprì che la nonna materna aveva a sua volta avuto un aborto spontaneo prima di mettere al mondo sua madre. Parlando con la nonna emerse che anche i mesi di concepimento e perdita del bambino erano più o meno gli stessi. Alice scoprì inoltre che alla nonna materna fu rimosso l’utero per un fibroma in concomitanza della sua nascita. La ferita e il dolore di Alice furono possibilità per lei di scoprire una sofferenza transgenerazionale mai condivisa. Alice ebbe successivamente una gravidanza che la vedeva diventare madre di una splendida bambina.

L’altro evento sincronico legato alla sorella accadde proprio durante il nostro percorso legato all’autobiografia. Stavamo riattraversando il tema dell’aborto e Alice in quel momento aveva intrapreso un lavoro anche corporeo di impacchi per risanare il suo corpo, dolorante, in cui le memorie corporee si erano attivate, proprio nei mesi anniversario del triste evento. Proprio mentre Alice stava rivivendo queste memorie, la sorella comunicò che era di nuovo incinta. Fu allora che Alice si chiese perché per la sorella tutto era più facile, mentre per lei non lo era. Ricordammo insieme che ognuno ha la propria unicità espressa nel DNA e nelle esperienze relazionali e ambientali che contribuiscono alla formazione di noi stessi. Ecco che allora fu naturale recuperare l’informazione che l’aveva portata a iniziare un percorso di autobiografia con me. Alice veniva da un’esperienza di imprinting di nascita[4] in cui aveva riattraversato la sua nascita, la sua faticosa nascita, così come da sempre era ricordata da tutti i famigliari. Il parto di Alice era stato in effetti un parto con un lungo travaglio. La madre non si dilatava e i medici stavano per procedere con un cesareo, quando alla fine optarono per un episiotomia e con la manovra di Kristeller Alice riuscì a nascere in modo naturale. Il diverso imprinting di nascita, quelle “impronte” del corpo in formazione dei suoi organi, quel particolare momento che dal pre-concepimento fino alla nascita vede la danza di eredità, ambiente e Sé, dispiegarsi nelle esperienze relazionali, contribuiscono alla formazione della nostra unicità fin dal principio dell’esistenza.

Alice è primogenita e, avere un fratello e una sorella, permette inoltre all’Io di rivivere e rivedere quelle fasi primarie di sviluppo dal concepimento in poi che solitamente sono rimosse per la parziale maturazione del sistema nervoso, nei primi anni di vita (Konig, 2014). Un fratello e una sorella portano il tema dell’altro e una necessaria ricollocazione di sé nel sistema famiglia e nel mondo; portano il tema della diversità e dell’unicità di ogni essere umano. Fu così che, riattraversando gli snodi suddetti, legati alla sorella e ascoltando Alice, mi arrivò un’immagine.

C’erano due alberi, posizionati alla distanza di tre metri. Erano due alberi diversi nella conformazione. Le radici sottoterra comunicavano tra loro nel profondo ma tra le fronde c’era uno spazio strano. Sembrava, pur essendoci spazio, che questo non fosse sufficiente affinché le fronde di uno dei due potessero crescere liberamente. L’albero di Alice, primogenita, da un lato era rigoglioso con la chioma verticale ricca di piccole foglie verdi in movimento, dall’altro lato era rivolto verso la sorella, era come trattenuto, i rami erano più corti, scuri, ombreggiati nella parte inferiore, verso la chioma della sorella che risultava invece simmetrica e allungata in orizzontale, come un grande pino marittimo. La chioma della sorella si protraeva verso l’albero di Alice, che era lì fermo nel silenzio della sua ombra. Fu allora che l’immagine cominciò a muoversi e mentre narravo ciò che vedevo ad Alice, l’albero di Alice iniziò a prendere vigore anche dal lato in ombra. I rami neri e corti, gradatamente e delicatamente iniziavano a muoversi, ad allungarsi, a crescere, riprendendo un colore vivo, chiaro e caldo, di un legno giovane e flessibile. I rami che prima erano fermi su tutto il lato iniziarono a prendersi il loro spazio, non solo in verticale, ma anche verso il pino marittimo, si incurvarono attorno a lui, a coppa, senza toccarlo, come a tendere le mani, come ad abbracciarlo. Le restituii l’immagine così come mi era giunta.

Agli incontri successivi, Alice mi riportò che incontrando la sorella, aveva notato che Anna risultava sempre essere la stessa, ma era cambiato lo sguardo con cui lei la guardava e poteva vederla così com’era, nella sua diversità, poteva avvicinarsi senza sentirsi limitata dalla sua esuberanza, riusciva a trovare il suo modo di esistere libera proprio consacrando l’importanza della loro differenza.

FIG. 2. Gustav Klimt, L’Albero della vita, Vienna, MAK – Museum für angewandte Kunst, 1909

Quando si entra in relazione con il paziente e con l’autobiografia letta ad alta voce, il corpo si pervade di sensazioni fisiche nuove e improvvisamente la mente srotola immagini davanti ai miei occhi come condensati informativi che puntualmente restituisco al paziente. Queste immagini sono sempre a contenuto naturale e sono vere e proprie immagini che prendono vita nel campo relazionale, dove il terapeuta si fa loro portavoce. È così che durante il dispiegarsi della lettura ad alta voce della biografia, il corpo e la mente del paziente e del terapeuta convergono in un “terzo luogo”, una terza istanza che parla per immagini. Con il termine immagini intendo «immagini con vita propria, l’immaginazione come atto che crea con il reale e sul reale» (Jung, 1997, p. 176). Sono le immagini che parlano e si presentano diventando orientanti la psiche e trasformative per la psiche stessa. L’immagine viene tradotta attraverso la parola che è una vibrazione in-formativa che colpisce la persona che la riceve in tutti i suoi sensi, non arriva solo all’udito, ma all’intero corpo, alle viscere. La voce varia nel tono, nel timbro, nella ritmicità e dunque la voce che traduce l’immagine diventa una sinfonia di accordi archetipici che fa vibrare l’intero corpo e apre la coscienza permettendo di riordinarsi a nuove frequenze.

L’immaginazione (in me mago) ci fornisce il tutto, immediatamente, è unificante, il tutto si unisce in un unico suono. Nell’immaginazione non esiste più la dialettica soggetto-oggetto, ma questi due aspetti si uniscono nella coscienza del sé narrante, unificata al mondo. L’apertura all’inatteso è ciò che ci conduce all’incontro con l’altro. È un momento poetico della terapia in cui tra stupore, commozione e gratitudine si fa esperienza dell’altro e della vita. Sono immagini pulsanti in cui si percepisce e si sente la forza dell’interrelazione del tutto. La nascita dell’immagine come prodotto dell’attività immaginativa che coglie il senso archetipico della vita è, come direbbe D’Annunzio, «un’epifania dello spirito» o più semplicemente un’ispirazione. Esiste un moto di integrità di mente e corpo, una connessione istantanea tra la sensazione fisica, l’emergere dell’immagine e la natura.

È così che lo sguardo del terapeuta ecobiopsicologico abbraccia, collega, crea connessioni, legami, si libera attraverso lo spazio e il tempo, con leggerezza. Il suo sguardo è periferico, panoramico perché non sono solo gli occhi a guardare, ma l’intero suo essere nella sua presenza sensoriale e intuitiva. Operando in tal senso il terapeuta entra in rapporto consapevole con «quella facoltà dell’anima capace di sintetizzare tutti i sensi – udito, olfatto, tatto, gusto – nell’unica singola facoltà di “vedere” costituito dalla percezione sensoriale del sovrasensibile» (Frigoli, 2019) chiamato corpo sottile, che proprio attraverso le immagini si manifesta. Quando parliamo di corpo sottile siamo in quel mondo intermedio, mundus imaginalis, che si stabilisce fra il mondo fisico delle forme concrete e quello che tende all’unità dei fenomeni. Nella relazione terapeutica è come se si stabilisse una connessione tra il sentire del terapeuta che, come quello del poeta, fa da ponte, da punto di incontro in sé tra lo strato più profondo del visibile e lo strato invisibile in cui pulsa l’energia. Lo spirito di ricerca e la possibilità di cogliere le connessioni fra il corpo, le emozioni implicite, il sentimento, l’immagine e la parola (Frigoli, 2017) sollecitano la dimensione generativa e favoriscono il risveglio del dialogo con l’anima che, a partire dalla storia autobiografia, ci apre a cogliere anche il senso più profondo della vita e ci parla per immagini poetiche nel dispiegarsi delle nostre molteplici esistenze.

FIG. 3. Karl Friedrich Schinkel, dalla scenografia per Il flauto magico di Wolfang Amadeus Mozart (1756-91): Il Palazzo della Regina, Berlino, produzione allestita all’Opera reale, 1816

«La bellezza del mondo costituisce un appello, nel senso più concreto del termine, e l’uomo, questa creatura di linguaggio, gli risponde con tutta la sua anima. Ogni cosa si svolge come se l’universo, nel pensarsi, attendesse l’uomo per essere detto». (Cheng, 2007, p. 74).

FIG. 4. Caspar David Friedrich, Signora alla luce del tramonto (Alba, Signora alla luce dell’alba), Essen, Museum Folkwang, 1818

 

References

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Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/poiesis_(Enciclopedia-dell’-Arte-Antica)/

 

Note

[1] Poiesis, al greco poieo, ποίησις significa propriamente “il fare dal nulla” (Platone, Simposio, 205, b) e appare la prima volta in Erodoto, (ii, 82), col senso di “creazione poetica” (https://www.treccani.it/enciclopedia/poiesis_(Enciclopedia-dell’-Arte-Antica)/) a ricordarci che l’atto creativo accade dal nulla, da quel otium che è quiete e silenzio, in uno spazio intermedio.

[2] Autopoiesi è la capacità di un sistema complesso, per lo più vivente, di mantenere la propria unità e la propria organizzazione, attraverso le reciproche interazioni dei suoi componenti. In greco auto se stesso, poiesis creazione.

[3] Anamnesi come termine che fa riferimento alla filosofia di Platone, per cui la conoscenza vera si fonda sull’anamnesi o ricordo delle idee conosciute dall’anima nella sua esistenza iperurania anteriormente al suo ingresso nel corpo. Tale teoria presuppone la concezione dell’immortalità dell’anima e della sua preesistenza al corpo. Durante la sua prima esistenza disincarnata, l’anima, a diretto contatto con le idee, acquisisce tramite la sua parte più nobile, l’intelletto o νοῦς, un bagaglio di conoscenze che tuttavia il successivo contatto con il corpo le farà dimenticare. Compito specifico della filosofia sarà appunto quello di risvegliare nell’anima il ricordo della primitiva esistenza e quindi far tornare alla mente il bagaglio di conoscenze vere a suo tempo acquisito. Tema legato al “ricordare”, prima citato.

[4] Imprinting, termine coniato dallo zoologo Konrad Lorenz per definire una particolare modalità di apprendimento solo nelle prime ore dopo la nascita, dalle prime trentasei ore ai primi tre giorni, in cui si stabilisce l’impronta della specie. Imprinting di nascita è un termine introdotto da Dominique Degranges, allievo di Porges e Levine, secondo il quale già dal pre-concepimento ognuno di noi riceverebbe un’impronta che ci accompagna nella vita post-natale.